| Se si dice «neuropsichiatria infantile», in Italia e non solo in Italia, si dice Michele Zappella. A 85 anni, il grande medico toscano che divenne famoso negli anni ‘60 e ‘70 per l’impegno contro le classi differenziali — un ghetto per i bambini meridionali — e poi per aver scoperto un paio di sindromi cliniche che ne hanno fatto un’autorità internazionale negli studi sull’autismo, continua il suo viaggio nell’infanzia e per l’infanzia con una passione e un’energia che impressionano. Quest’anno ha appena pubblicato per Feltrinelli un nuovo libro, Bambini con l’etichetta, in cui si schiera contro il dilagare di diagnosi che finiscono, avverte, per creare nuove condizioni di emarginazione. Sono appunto «etichette», è la sua denuncia, che si appicciano addosso al bambino e l’accompagnano fino al suo ingresso nel mondo del lavoro. Troppo spesso dei ritardi, se non delle «transitorie timidezze», vengono a suo avviso confusi per disturbi, dislessia, discalculia, iperattività, fino all’autismo. E queste diagnosi sbagliate vengono anche rese pubbliche, così le etichette diventano sentenze.
Parlando con Anna Stefi per una splendida intervista pubblicata da Doppiozero, il vecchio «zio Michele», come si fa chiamare dai bambini che ancora cura — o come a loro si propone quando non parlano — arriva a dire che con la pandemia a molti bambini è andata meglio, perché sono stati di più con i genitori e si sono evitati diagnosi sballate. Diagnosi la cui pubblicità, oltre che gli errori di merito, non si stanca di contestare:
«La diagnosi, che è qualcosa di estremamente delicato, non resta tra la famiglia e il professionista, come invece dovrebbe. Certo poi si tratta di capire cosa fare della diagnosi rispetto al bambino, ma che la diagnosi venga conosciuta da tutti a scuola, anche dai compagni e dalle compagne, proprio in quel luogo dove sviluppano la loro socialità, è qualcosa di gravissimo ed è quel che porta al trasformarsi della diagnosi in etichetta, cioè descrivere una persona per un aspetto della sua personalità, un aspetto negativo. Le diagnosi nel contesto scolastico dovrebbero rimanere estremamente riservate. La conseguenza, altrimenti, a partire dai più piccoli, è che l’etichetta viene interiorizzata, i pregiudizi si diffondono, l’ascolto di quel particolare bambino, non riducibile alla diagnosi che è stata fatta, diventa difficile».
Poi evidentemente c’è l’altro problema, quello del merito delle diagnosi:
«Su cinque bambini che sono indietro nella lettura, indistinguibili tra loro da un punto di vista fenomenico, uno solo tra loro è dislessico, gli altri sono ritardi di lettura dovuti a problemi ambientali o a ragioni differenti. In questo proliferare di diagnosi di dislessia il messaggio che arriva dalle nostre istituzioni agli insegnanti è che dislessia, discalculia, disgrafia, sono caratteristiche biologiche dell’individuo e che, come tali, rischiano di perpetuarsi e vanno gestite in terapia. Si tratta di qualcosa di completamente errato, che toglie alla scuola uno dei compiti principali: insegnare, leggere e fare di conto. Alla scuola questo si chiede, togliere questi strumenti è grave e se ne vedono le conseguenze: se andiamo a vedere le statistiche, sul piano dell’insegnare a leggere, l’Italia è tra gli ultimi paesi, è un paese dove i ragazzi che entrano nella scuola superiore non comprendono un testo».
Così, come rileva l’intervistatrice, che nella scuola lavora, c’è il rischio che noi genitori ci siamo adagiati troppo sulla richiesta degli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalle diagnosi e che, tra mappe cognitive e interrogazioni programmate, riducono l’impatto con la fatica. Vale per gli adolescenti come vale, sottolinea Zappella, per i bambini:
«Il problema di fondo lo leggo in questa maniera: succede ora e non succedeva decenni fa, e questo a mio avviso è un cambiamento di cultura. Cosa è accaduto? La cultura nei riguardi dei bambini e degli adolescenti è cambiata nella direzione di quello che si potrebbe chiamare “la caccia al diverso”, “troviamo la diversità”: inizia con i BCE, poi con i DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), e così via. Gli stessi genitori si trovano a percorrere questa direzione».
A Zappella, inevitabilmente, questi percorsi ricordano l’esperienza che l’ha reso celebre:
«Ricordo benissimo i tempi delle classi differenziali e speciali. Mi sono trovato protagonista nel favorirne la chiusura e in quell’epoca, prima metà degli anni Settanta, quello che facevo era di andare nel territorio, tra Siena e Firenze. Nelle scuole si tenevano delle assemblee molto partecipate, con anche cinquecento persone. In queste assemblee non intervenivano i genitori ma i cittadini, intervenivano perché era apparso chiaro in quegli anni che nelle classi differenziali andavano i figli dei poveri, in particolare i figli degli immigrati interni, quelli che si muovevano dal sud al nord, che parlavano dialetto e provenivano da famiglie analfabete e che davanti ai test collettivi non rispondevano perché faticavano a capire il tema e dunque la diagnosi prevalente era il ritardo mentale».
La chiusura delle classi differenziali liberò risorse, spazi e insegnanti specializzati che furono così indirizzati su bisogni reali:
«Un esempio è quello dei bambini sordi, che hanno bisogno di un insegnamento che dura un certo periodo di tempo e li conduce a padroneggiare l’italiano: vi erano classi particolari in cui i bambini sordi portavano avanti questo lavoro, affiancato a momenti in cui stavano con i compagni. Quando poi acquisivano la lingua venivano reintegrati totalmente. Gli insegnanti specializzati intervenivano con i sordi, con i ragazzi in difficoltà, ma non c’era una diagnosi pubblica». Ma tutto questo, sostiene lo psichiatra, è stato a suo volta compromesso dalla sostituzione delle assemblee di «genitori cittadini» con i «rappresentanti dei genitori», e dalla conseguente diffusione delle diagnosi.
C’è poi un altro tema — un’altra conseguenza — che Zappella affronta con grande forza nel libro, ed è quello del bullismo:
«Il nostro Paese è uno di quelli con più elevato livello di bullismo, percentuali vicine al 50% secondo alcuni studi di inizio millennio. Il termine venne introdotto nel 1974 da un pedagogista norvegese, Dan Olweus dopo che tre ragazzi si erano uccisi. Olweus ha introdotto anche delle strategie antibullismo che attualmente vengono messe in atto a livello nazionale nei Paesi scandinavi. Una delle frasi di Olweus che mi trova molto d’accordo è che dove c’è bullismo non c’è democrazia: se lei ha un figlio che a scuola incontra episodi di bullismo, le pare che possa dire di essere in un paese democratico? Un paese che non rispetta bambini e adolescenti non è un paese democratico, è una finzione».
Le «strategie antibullismo» prevedono l’isolamento del bullo e il confronto con lui, con modalità diverse a seconda dell’età: «Generalmente con i bambini più piccini è più facile persuadere il bullo che lui ha delle qualità sociali con cui può rendersi utile. Con gli adolescenti può essere più difficile, possono essere più tosti, dunque il discorso può esser concreto e anche duro: se vuoi ci siamo, se non vuoi, ci rivediamo tra una settimana».
Anche il fallimento della lotta al bullismo Zappella lo imputa alla sostituzione delle assemblee con i rappresentanti: «Cosa fanno gli insegnanti in queste situazioni? Situazioni in cui magari i rappresentanti dei genitori sono proprio i genitori del bullo, genitori pronti a minacciare la denuncia al Tar? Molti insegnanti stanno sulle loro, non esiste una direttiva chiara in questo senso».
Il «punto chiave», per ognuno di questi aspetti, è che per i genitori è difficile accettare la difficoltà dei figli. Diventa la loro frustrazione e non riescono a sopportarla:
«Il collegamento importante è quello sui valori della società dei consumi, quali valori? Se devi entrarci, devi avere due qualità: saperti relazionare bene e leggere e scrivere e fare di conto. Se poi sei troppo irrequieto non va bene, perché sei impulsivo, e nemmeno se sei troppo silenzioso. Da parte dei genitori il problema quale è? Il genitore pensa che il suo obiettivo sia innanzitutto avere il minor numero di problemi e dunque moltiplicare gli interventi attorno al proprio figlio è garanzia di questo. Questa impossibilità di tollerare le difficoltà ha note molto drammatiche, la diagnosi di autismo, per esempio, ha ricadute sulla famiglia devastanti e 50 anni fa non era così. Quattro madri su cinque vanno in depressione e dopo un anno e mezzo la depressione si riscontra ancora: si tratta di depressioni pesanti, che spesso portano anche la famiglia a non reggere».
Ma resta il fatto che molte diagnosi sono sbagliate perché non si interviene nel modo giusto nel momento decisivo:
«Generalmente il problema si pone intorno ai due anni, i bambini a due anni che rapporto hanno con un adulto? Un bambino di due o tre anni, che non parla granché, ha un altro tipo di comunicazione, una comunicazione nella quale vuole essere rassicurato e divertito. Ogni bambino ha la sua, ci sono bambini più visivi, bambini più musicali. Io spesso borbotto motivetti musicali. Questo passaggio è necessario per creare un’alleanza e l’alleanza è essenziale per capire chi è il bambino che mi trovo davanti. Un altro elemento fondamentale è accogliere i bambini con il loro nome e in un ambiente pieno di giocattoli, distribuiti con sapienza, giocattoli che devono essere presentati a lui come fossero lì per lui. È essenziale che il bambino si senta protetto, in un ambiente sicuro, solo in questa situazione possiamo capire chi sia davvero. I bambini visitati nella corsia di ospedale sono allarmati, mica sono scemi! Sentono l’allarme dei genitori e dunque se ne stanno sul chi va là». E allora, meglio «dimenticare la diagnosi e parlare con i pazienti. Le bambine con Sindrome di Rett, per esempio, sono bambine che non parlano e non parleranno mai, quale è il senso di descrivere ai compagni le caratteristiche e le conseguenze della malattia? Si tratta di bambine che molto spesso si incantano con Mozart, comunicano con la musica. È essenziale vedere questo, vedere il rapporto con l’altro in questa direzione. Le diagnosi cancellano gli aspetti positivi».
Alla fine , c’è il senso di una missione che i grandi medici trasmettono in un unico modo, l’esempio instancabile e divertito:
«Quando vedo questi bambini di due o tre anni e faccio il pagliaccio io vedo un candore che trasmette un’energia che dura giorni e giorni, e insomma il problema è di mettersi dalla loro parte. Non è tanto facile, ma è possibile. Mi dispiace che il nostro Paese culturalmente sia un po’ tagliato fuori dall’Europa, non c’è comunicazione tra i discorsi educativi, non circolano. Ma io voglio pensare in modo positivo, bisogna battersi, no?».
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